Opera Lirica
 
 
 
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Dizionario dell'Opera - ED. Baldini & Castoldi
   DIDONE
  di Cavalli Francesco  su libretto di Gian Francesco Busenello
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Personaggi

Didone (S), Enea (T), Iarba (A), Cassandra (S), Ecuba (A), Anna (S), Anchise (T), Ascanio (S), Creusa (S), Sicheo (T), Pirro (T), Corebo (A), Sinone (B), Ilioneo (A), Acate (T), due messi (T), un vecchio (B), Giove (B), Giunone (S), Mercurio (A), Venere (S), Amore (S), Nettuno (B), Eolo (T), la Fortuna (S), le tre Grazie (S), Iride (S); damigelle, ninfe, cacciatori, troiani

Soggetto frequentatissimo dal teatro d’opera quello di Didone, e fin dal Seicento trattato nelle forme più disparate.
Dopo l’esordio di Busenello e Cavalli – e prima della Didone abbandonata di Metastasio – il mito è messo in musica ovunque: oltre alla versione inglese di Purcell (1689), ecco la tragédie en musique di Henri Desmarets (Parigi 1693) e quella tedesca di Christoph Graupner (Amburgo 1707).
Tutte coinvolte dall’aspetto tragico della vicenda e dal dolore infinito della regina di Cartagine. Non in Italia: da noi l’opera, almeno in questi anni, non può avere finale tragico – le eccezioni a questa regola si contano sulle dita di una mano (e fra queste è proprio un’altra Didone , quella di Andrea Mattioli su libretto di Paolo Moscardini: Bologna 1656). Così Busenello, che non trascura di infarcire i suoi sottili versi filosofeggianti con una larvata critica politica, risolve la vicenda, senza molta convinzione, con un matrimonio fra l’infelice regina e Iarba (una soluzione che avrebbe inorridito Virgilio), con tanto di tentativo di suicidio reciproco, reciprocamente sventato. Ma a parte il finale e la figura di Iarba, che perde presto il senno perché inizialmente rifiutato da Didone (elemento comico già sperimentato nella Finta pazza di Strozzi e Sacrati), questa Didone rimane comunque opera di profonda tragicità, certamente la più cupa fra tutte quelle di Cavalli e forse una delle più tormentate di tutto il Seicento. Le poche scene comiche diventano di amaro sarcasmo, e se non fosse per la pazzia di Iarba o un paio di coretti di damigelle l’opera si trasformerebbe in un immenso, disperatissimo e inconsolabile ‘lamento’, qui sperimentato da Cavalli in tutte le sue forme (su tetracordi diatonici e cromatici, in ritmi ternari e binari, con versi piani e sdruccioli): così langue Ascanio partecipe della disperazione del padre; langue Cassandra per l’amato Corebo che le sta morendo fra le braccia; langue Ecuba stanca di vivere di fronte alla disfatta di Troia; langue Enea al ricordo dell’omicidio della moglie Creusa (che poi gli appare in sogno; non rimane escluso nemmeno Iarba che, appena prima di impazzire, si dispera per esser stato rifiutato da Didone; e doppiamente affranta è Didone, prima per la partenza di Enea e poi per aver tradito la memoria del marito Sicheo (“Porgetemi la spada”, il momento più intenso e disperato: III,11). Ma il mito di Didone piace ai veneziani non solo per la componente tragica: ugualmente sensibili sono per quella eroica. Didone – come in genere il viaggio di Enea, e tutte le vicende legate alla guerra di Troia – ricorda infatti alla laguna la sua identità politica repubblicana, perché la Repubblica romana (di cui Venezia si considera diretta discendente) deriva dalla stirpe di Enea esule troiano, ed esuli e perseguitati furono all’inizio gli stessi veneziani. Didone fu la prima opera di Cavalli allestita in epoca moderna (1952), in occasione dei trecentocinquant’anni dalla sua nascita.
 
   
       
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